Marzo 2022
Héctor Cavallaro
Yeah Yeah Yeahs: una prassi filosofica della nostalgia
ad Adrián Trujillo Giommi, che amava gli Yeah Yeah Yeahs
Introduzione:
Le pagine che seguono sono narrate da Elizabeth nell’autunno del 2039. Questa storia parla di lei. E di Mr. Catinella. E degli Yeah Yeah Yeahs.
Elizabeth (39):
Quando sono stata invitata a scrivere un saggio sull’argomento nostalgia, su richiesta dei miei cari e stimati colleghi, per questo volume collettaneo, ho deciso di tentare un esperimento: invece di mettere filosoficamente a tema la nozione di nostalgia – dal greco nóstos, “ritorno a casa” e álgos, “dolore" – vorrei piuttosto procedere a “incidere”, per mezzo della prassi, e, se tutto va bene, infine a “scolpire” il fenomeno stesso della nostalgia, immergendolo in quella che considero una situazione particolarmente ricca (e nostalgica, a dirla tutta), risalente a quasi vent’anni fa.
Secondo la “regola dei 20 anni” ci vogliono vent’anni perché un oggetto d’arte, di solito nell’ambito della musica pop, possa riemergere come fenomeno nostalgico.
Quando ero iscritta al Master of Arts in filosofia presso la New School, nel 2020, seguii un seminario sull’“estetica dei suoni”. Il docente era Mr. Cavallaro Catinella, esule cubano di lunga data, per metà italiano, musicologo. Il seminario era noto perché spesso ci si avventurava verso strani argomenti seguendo una peculiare modalità filosofica. All’epoca sembrava tutta spazzatura, piena di pretenziosità dialettica post-marxista. Adesso, quasi vent’anni dopo, ho ritrovato i miei appunti e le registrazioni del seminario di Catinella, e non posso fare a meno di ridere, affascinata dalla loro astrattezza: - “Gli anni zero come categoria dell’esperienza: note sul World Trade Center.”
- “Gli Yeah Yeah Yeahs e la tonalità come un edificio in rovina.”
- “Gli Yeah Yeah Yeahs contro l’avanguardia: il noise come emancipazione dall’espressione (modernità). Il noise come espressione (postmodernità).”
- “Postmodernità come una Negazione della Negazione. Sulla dialettica vs. la dialettica negative. Verso una terza negazione (Yeah Yeah Yeahs).”
Quell’anno, come ogni due anni, il seminario di Catinella ruotava intorno a un tema, che avrebbe funto sia la colonna sonora, sia l’oggetto dell’analisi. Il tema era il 20° anniversario del gruppo indie rock newyorkese Yeah Yeah Yeahs. L’ambito era fondamentalmente quello del suono e della storia della musica, ma era sempre mescolato a un’estetica più astratta (la filosofia dell’opera d’arte), all’estetica marxista, alla teoria francese, alla cultura pop, etc. – un eclettico cocktail postmoderno, in senso buono o, quantomeno, non del tutto in senso cattivo. E, sebbene la scelta degli Yeah Yeah Yeahs non sia mai stata veramente chiara – egli affrontava la questione in diversi modi durante il semestre, dicendo qualcosa del tipo “perché gli Yeah Yeah Yeahs? Ebbene, perché no?” –, per quel che ne so io, i vent’anni di distanza dalla loro nascita sembravano effettivamente evocare una questione più grande, che ci chiama in causa qui e ora: la “regola dei 20 anni”, come potremmo definirla. Nel suo Retromania, il musicologo inglese Simon Reynolds suggerisce che ci vogliono perché un oggetto d’arte, di solito nell’ambito della musica pop, possa riemergere come fenomeno nostalgico. Dev’essere questa la ragione per cui sto riprendendo in mano i miei appunti, per cogliere qualcosa dalla loro essenza attraverso il prisma della nostalgia e approfondirli, con l’inevitabile peso dell’esperienza, scavando al loro interno, nella speranza di raffigurare in tempo reale la “ri-emergenza” del fenomeno nostalgico stesso. Inoltre. l’idea di una “prassi filosofica” mi ha condotto in qualche modo a scrivere un “saggio sperimentale” nella forma di un collage, che mescola costantemente tre diversi livelli testuali, come una sorta di “pagine di diario”. In primo luogo, alcuni miei appunti del Corso; in secondo luogo, qualche registrazione audio, principalmente di Catinella che parla, ma non solo; in terzo luogo, alcune note esplicative scritte oggi.
1. Gli anni zero come categoria dell’esperienza: note sul World Trade Center
With every breath I breathe I’m making history
21 settembre 2039, 09:00
È difficile dimenticare il mio primo corso con Catinella. Quando misi piede in classe, qualcosa che sembrava una poesia era già scritto sulla lavagna. In seguito, ci abituammo a questa pratica ricorrente di Mr. Catinella, che consisteva nello scrivere una frase “nietzscheana” e nel chiedere alla classe se fosse effettivamente di Nietzsche o di qualche artista pop scelto da lui quel giorno. “È Nietzsche o Morrisey?” chiedeva solennemente, dandoci quello “sguardo di sfida”, aspettandosi che qualcuno alzasse la mano, mentre aggiungeva “e per favore, ditemi perché?”:
I am the son
And the heir
Of a shyness that is criminally vulgar
I am the son and heir
Of nothing in particular
You shut your mouth
How can you say
I go about things the wrong way?
“Direi… Morrisey?” disse un hipster punkeggiante dalle prime file. “Ok, non mi sembra così sicuro” disse Mr. Catinella, mentre l’aula si tingeva di risate nervose. “Non so, direi che è tipo una specie di domanta a trabocchetto... inoltre, sarebbe fico se fosse Morrisey, direi”. Ricordo alcuni colleghi nietzscheani – or nietzscheschi, dovrei dire, giacché la maggior parte degli student di filosofia è attratta più dalla figura di Nietzsche che dai suoi testi – che cercavano di argomentare le ragioni per cui quel frammento dovesse provenire, probabilmente, da Umano, troppo umano, o da Aldilà del bene e del male, in quest’ordine. Mr Catinella stava quindi al gioco, integrando ulteriormente le loro argomentazioni: “L’idea di una ‘timidezza che è criminalmente volgare’ certamente si accorda con i rapidi sillogismi di Niezsche che raffigurano una moralità obsoleta, tipici dell’epoca di Aldilà del bene e del male. Inoltre, la ripetizione del verso ‘Io sono il figlio e l’erede’ potrebbe tranquillamente essere stata presa da uno dei paragrafi dello Zarathustra, sebbene non in stile aforistico.” Mi ricordo che suggerì che se la parte che diceva “di niente in particolare” ci faceva pensare a Nietzsche, allora stavamo rafforzando il cliché “nichilista”, che “aveva probabilmente origine nell’errata interpretazione da parte degli Alleati dell’errata interpretazione di Nietzsche da parte dei nazisti”. In pochissimi risero; io fui uno di quelli. Poi Catinella iniziò a cantare: You shut your mouth, how can you say, nananana… – quasi bofonchiando il testo, mentre la melodia diveniva lievemente familiare – I am human and I need to belong – alcuni di noi cominciarono a unirsi imbarazzati, quasi come in un coro, e senza necessariamente riconoscere la canzone, cantando le ultime parole all’unisono – Just like everybody else does! – I versi erano di Morrisey, o... in effetti, della più famosa band di Morrisey degli anni ‘80, gli Smiths, e specificamente alla canzone “How Soon Is Now” dal loro album del 1984 Hatful of Hollow. Ebbe inizio così il seminario sull’ “estetica dei suoni”.
Come concetto-chiave del seminario, Catinella ci suggerì di considerare i primi anni 2000 – o gli anni zero, come li chiamava – come una particolare “categoria dell’esperienza”. Ispirata dal pensiero di Walter Benjamin, la categoria dell’esperienza veniva associata ai grandi mutamenti storici, quali la Prima guerra mondiale, in cui grandi macchine da guerra che frantumavano fragili corpi umani rinnovavano la nozione stessa di esperienza. Gli anni zero, chiaramente, sono anche quelli che hanno dato i natali agli Yeah Yeah Yeahs.
Anche io sono nata in quel periodo, il 25 agosto dell’anno 2000. La performance d’esordio della band avrebbe avuto luogo un mese dopo, il 24 settembre.
Gli anni zero, e soprattutto l’11 settembre, rappresentarono un cambiamento di paradigma su molteplici livelli, disse Catinella. Egli era un difensore del materialismo dialettico. In altre parole, era filosoficamente un marxista. Per parte mia, preferivo Benjamin – il marxista più fico, per non dire l’unico, probabilmente grazie al suo pessimismo e alla sua malinconia – poiché la sua idea di esperienza non è un valore fisso, predicato dell’umana capacità di percepire il mondo, ma piuttosto una “categoria”, che è una “costruzione” dei processi storici tanto quanto, diciamo, la cultura, l’architettura, la religione o la nozione di Dio.
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[…] “l’esperienza è caduta”, scriveva Walter Benjamin, indicandoci lo shock rappresentato dalla guerra del 1914-1918. La nozione benjaminiana di esperienza è formata da due elementi dialettici: i mezzi tecnici materiali del tempo e la psiche umana del tempo, i quali si modellano reciprocamente. In primo luogo, come risultato del progresso tecnico-scientifico, le moderne macchine da guerra non significavano semplicemente una maggiore distruzione, ma anche, e più precisamente, una dimensione incomprensibile della distruzione stessa, fino a quel momento ignota. In secondo luogo, il punto di svolta ha investito una generazione che il giorno prima prendeva il tram a cavalli per andare a Scuola, e il giorno dopo si è ritrovata in un panorama nel quale niente era più lo stesso “eccetto le nuvole e, al centro, in un campo attraversato da torrenti di distruzione e da esplosioni, il minuscolo e fragile corpo umano”, per dirla con Benjamin. Perciò, è la nozione stessa di esperienza umana, in quanto categoria costruita, che cambia nel corso della Storia. È per questo che ritengo utile pensare ai primi anni 2000, gli anni zero, come a una particolare categoria dell’esperienza, definita dallo shock dell’11 settembre. Da un lato, c’è l’acrobazia terroristica – e terrificante! – mai vista prima degli aerei che si schiantano contro il World Trade Center: il simbolico “cuore” ideologico del capitalismo americano – ricordate che gli aerei, come molte altre tecnologie, si sono evoluti, quantomeno parzialmente, grazie al progresso tecno-scientifico connesso alla guerra. Dall’altra parte, ci sono le immagini di quella scena, trasmesse globalmente su tutti i televisori, e la traumatica assimilazione di esse da parte nostra – almeno da parte di quelli di noi che c’erano.
21 settembre 2039, 11:26
All’epoca non riuscivo a capire perché la categoria dell’esperienza dovesse essere connessa alla concezione dialettica della Storia. Ho sempre trovato problematiche le nozioni marxista ed hegeliana di “storia”. Mi sembra che Hegel, e così Marx, e così Benjamin, vedessero la “Storia” (con la S maiuscola) come una complessa sostanza interdimensionale, attraversata da molteplici processi e scambi umani, nella quale dovremmo scavare per poter disvelare la verità. Eppure, è sempre una verità, giacché la Storia, per quanto complessa e profonda possa essere, è sempre una. Il file audio successivo che ho di quell giorno consiste di una registrazione che ho fatto per strada.
VoiceNote.09082020.crazy_streetpreacherNYC.mp3
... ma la verità non è una cosa sola, bensì uno spettro di cose! La verità non è che uno spettro! La verità non è che [...]
21 settembre 2039, 11:39
Si potrebbe dire che la post-verità fosse già apparsa sui radar all’epoca. In maniera abbastanza curiosa, questo è il terreno in cui i rizomi di Deleuze & Guattari (e, parallelalmente, la queer theory) si sarebbero reimpiegati, sradicando l’uno (l’identico, il chiuso, la norma) e pertanto “facendo crollare” o rompendo la “sostanza” (in senso spinoziano) in un’infinita varietà di fattualità, appunto, come in uno spettro. Ricordo di aver letto un sacco di Butler e di Preciado all’epoca e di aver considerato l’idea della “categoria dell’esperienza” come un concetto normativo riduttivo. O forse ero riluttante all’idea di vedere gli anni zero come una “categoria dell’esperienza”, poiché non li avevo esperiti io stessa. L’epidemia di COVID-19 era stato il primo evento storico della mia vita in cui avevo sentito che l’umanità fosse a un punto di svolta. Il secondo sarebbe stato l’invio riuscito di un equipaggio su Marte da parte della SpaceX, nel 2029. In qualche modo, l’idea di una categoria dell’esperienza rinnovabile, ora che ci penso, sembra vera eppure incompleta nella sua stessa logica.
In un certo modo, penso che la “categoria dell’esperienza” non debba essere intesa come qualcosa che si “cristallizza” in una sostanza fissa. Piuttosto, vorrei proporre di pensarla come una sostanza “molecolare” composta, definita a partire dal suo interno per mezzo delle sue “particelle”, le sue particolarità, che sono in un costante movimento, in un costante divenire. In alter parole, non esiste qualcosa come l’esperienza; piuttosto, esistono molteplici line di soggettività individuali sensibili dirette verso l’infinito. In questo senso, l’esperienza sarebbe più che altro come una “supernova” composta di soggettività individuali che collidono tra loro.
In tal senso, mi piacerebbe porre una domanda retorica a Mr. Catinella: che cosa accadrebbe se gli anni zero, intesi come una rinnovata “categoria dell’esperienza”, significassero invece un cataclisma eterogeneo compost di un numero pressoché infinito di esperienze umane che cambiano una alla volta, come l’energia potenziale interna di una bomba atomica, una volta attivata? Che cosa ne sarebbe dell’orribile esperienza sensibile di ciascuno di quei corpi che cadono? Inoltre, oltrepassando l’antropocentrismo, che cosa ne sarebbe di quella rinnovata categoria dell’esperienza applicate a ciascuna finestra in frantumi, a ciascun pezzo di cemento volatilizzato.
In ogni caso, mi chiedo: in che cosa consisteva la soggettività sensibile di Catinella nei confronti degli Yeah Yeah Yeahs e degli anni zero years? Era forse un elemento nostalgico Nostalgia: nóstos, “ritorno a casa”, e álgos, “dolore”. Gli eventi dell’11 settembre erano indubbiamente stati dolorosi, però “ritorno a casa”? Verso dove?